Cibo e rifugiati nella città capitolina, tra pratiche di emergenza e tentativi di agentività

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3 janvier 2019

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Donatella Schmidt et al., « Cibo e rifugiati nella città capitolina, tra pratiche di emergenza e tentativi di agentività », Archivio antropologico mediterraneo, ID : 10.4000/aam.854


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Résumé It En

Il saggio verte sulle pratiche legate alla cottura e alla distribuzione del cibo in due esperienze d’accoglienza rivolte a rifugiati e a richiedenti asilo nella periferia di Roma. Il primo caso riguarda un modello di ospitalità dal basso conosciuto come Baobab; il secondo riguarda un’esperienza gestita dai gesuiti, nota come mensa del Centro Astalli. Due principali domande guideranno il nostro lavoro: qual è il senso del cibo per attivisti e volontari nei due esempi considerati? In che modo pratiche legate al cibo sono in grado di creare spazi di comunicazione e di riflessività tra rifugiati e settori della società ospitante? L’approccio generale adottato in questo saggio non pone l’accento tanto sulle difficoltà sperimentate da attivisti, volontari e rifugiati, che sono una costante della loro interazione quotidiana, quanto sulle modalità creative nell’affrontarle. In quest’ottica, si suggerisce che entrambi i casi di studio potrebbero trovare nel concetto di agentività uno strumento capace di rendere visibili dinamiche che altrimenti rimarrebbero sottaciute.

This essay aims to tie food practices to refugees and asylum seekers who live in temporary or emergency settings, focusing on two specific ethnographic cases located in the city of Rome. The first case refers to a bottom up hospitality experience named Baobab; the second case refers to a more structured experience, a soup-kitchen devoted to asylum seekers run by the Jesuit International Service for Refugees. Two main questions will lead our work: what is the sense of food for activists and volunteers in the two case-studies under consideration? And, how are food practices capable of creating spaces of communication and reflexivity among refugees and sectors of the host society? The general approach adopted in the essay is not so much on difficulties experienced by volunteers and refugees alike, which are present in everyday interaction, but rather on creative ways to cope with them. In this perspective, we suggest that both case-studies might find in the concept of agency a tool capable of making visible dynamics that would otherwise remain unspoken.

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