Paul Ricœur tra moderno e postmoderno

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Alessandro Colleoni et al., « Paul Ricœur tra moderno e postmoderno », HAL-SHS : philosophie, ID : 10670/1.xz7qxp


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Nel 1979 Jean-François Lyotard pubblicava La condizione postmoderna, celebre testo con cui restituiva in poche pagine il senso di instabilità intellettuale e politica della seconda metà del secolo scorso, e che avrebbe segnato l’inizio di una presa di coscienza e di una riflessione tematica, in Europa, sulla crisi delle “grandi narrazioni” della modernità. L’ideale di una filosofia fondativa, certa dei criteri che servono a distinguere il vero e il falso, l’essere e il non essere, che era stata l’idea-guida dell’avvicendarsi dei modelli e dei sistemi di pensiero moderni, era ora dichiarato illusorio. La condizione postmoderna è la condizione della perdita delle certezze. Più radicalmente, essa definisce il momento in cui la filosofia rinuncia ad ogni possibilità di legittimazione del conoscere, diventando così “pensiero debole”, per usare l’espressione con cui, in Italia, Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti avrebbero poi definito, in continuità con Lyotard, quella che consideravano la forma più propria del sapere contemporaneo. Paul Ricoeur, negli stessi anni, in particolare tra il 1975 (anno in cui pubblica La metafora viva e in cui tiene il corso di lezioni sull’Ideologia e l’utopia) e il 1983 (anno in cui esce l’ultimo volume della trilogia di Tempo e racconto), rifletteva sulla verità e sulla finzione, su come entrambe abbiano a che fare con la nostra esperienza pratica di vita e con il modo in cui rendiamo questa esperienza dicibile e comprensibile. Per farlo, ripartiva da Aristotele e da Agostino, da Spinoza, da Leibniz e da Kant, da Husserl, da Heidegger e da Gadamer. Niente di più moderno, niente di più postmoderno.

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